Semestre nero per le startup italiane: investimenti dimezzati rispetto al 2022
Se il 2023 è stato fin qui un anno decisamente caldo, viste le temperature record registrate in Italia e nel resto del mondo, lo è stato molto meno per le nostre startup. Nel primo semestre dell’anno gli investimenti in startup, nel numero dei round e nel volume di raccolta, sono calati in modo drastico rispetto al 2022. I dati parlano chiaro: come riporta un recente report di StartupItalia, sono 487 milioni (con precisione 487.842.871) i capitali raccolti da inizio anno a giugno con un totale di 84 deal. Per fare un confronto, nei primi sei mesi del 2022 i capitali ammontavano a circa un miliardo. Ad oggi, si registra quindi una diminuzione del 51.17%.
I dati italiani sono comprensibili anche in un contesto più ampio. Secondo le previsioni dell’osservatorio State of European Tech, infatti, gli investimenti in startup a livello europeo continueranno a calare per tutto il 2023. Per la fine dell’anno saranno circa 51 miliardi, 32 in meno dello scorso anno (il -39%) e circa la metà rispetto al 2021. Uno scenario sicuramente non rassicurante ma in linea con il declino avvenuto in tutto il mondo negli investimenti in startup. Similmente al resto d’Europa, anche in Italia nel corso di quest’anno sembra esserci una carenza di grossi round.
Anche i dati raccolti da Italian Tech Alliance riflettono investimenti in netto calo nel primo semestre del 2023. Nel mese di giugno sono stati investiti 98,35 milioni di euro in startup, con 19 aumenti di capitale. Tra le operazioni di questo mese emergono i 61 milioni raccolti da Aavantgarde, i 6 milioni di Develhope e i 5 milioni di Isaac.
Quanto alla distribuzione regionale degli investimenti, degli 84 round registrati da gennaio a giugno – riporta sempre StartupItalia – 38 riguardano startup in Lombardia (il 45,7%), 14 in Piemonte (16.,8%), 8 in Emilia Romagna (9,6%), 6 in Lazio (7,2%), 4 in Toscana (4,8%), 3 in Sicilia (3,6%), 2 in Veneto, Puglia, Trentino Alto Adige (2,4%) e uno solo in Campania, Molise, Sardegna e Liguria (1.2%).
Reggono le PMI
Decisamente più positivo lo stato di salute della piccola e media impresa italiana. I dati forniti dall’Osservatorio PMI del Politecnico di Milano ne dimostrano l’importante ruolo economico e occupazionale per il Paese. Le PMI generano il 40% del totale del reddito nazionale impiegando il 33% della forza lavoro, nonostante costituiscano soltanto il 5% del panorama imprenditoriale italiano.
Attualmente, sono 221mila le PMI italiane che operano in differenti industrie. In cima allalista, per fatturato, si trova il settore agroalimentare, in cui le PMI contribuiscono al 41% del totale del fatturato della filiera che coinvolge 1,4 milioni di imprese e si caratterizzano per una media di 22 addetti per impresa.
Seguono le PMI specializzate nell’arredamento, le quali costituiscono il 6% dell’intero comparto che include 161 mila imprese. Sono in grado di fatturare circa il 42% dei ricavi dell’intera filiera, con una media di 24 addetti per impresa. Successivamente troviamo l’AEC (Architecture, Engineering and Construction), qui le PMI sono il 3% del totale con una media di 22 dipendenti e un fatturato che comprende il 33% dei ricavi ottenuti dalle 879 mila imprese nazionali.
Infine, la meccanica e la meccatronica – dai dati del Politecnico – vedono le PMI essere il 19% delle imprese attive (circa 63mila), con una media di 30 addetti e un fatturato che copre il 59% dell’intero comparto. Sono numeri che potrebbero crescere puntando maggiormente sulla digitalizzazione, mentre il 43% di PMI che dichiara di essere all’avanguardia nel processo di digitalizzazione o di puntare sul digitale, il 35% stenta a riconoscere un ruolo fondamentale nella digitalizzazione all’interno del proprio settore economico di riferimento. Il 51% delle aziende, infatti, non svolgono attività per sviluppare e potenziare le competenze digitali.
La svolta “green”
La transizione ecologica è un tema altrettanto forte per le PMI italiane: è quanto emerge dall’indagine “PMI italiane e transizione ecologica” condotta dal Forum per la Finanza Sostenibile (FFS) in collaborazione con Cerved Group e Cerved Rating Agency. Nel dettaglio, il 45% pensa che la sostenibilità rivesta un ruolo “importantissimo o molto importante in azienda”, mentre il 62,5% si dice consapevole che il cambiamento climatico avrà ripercussioni sul proprio business nel breve o nel lungo periodo. Nonostante questa consapevolezza, solo il 17% ha sfruttato strumenti sostenibili. Inoltre, meno della metà (il 41,4%) degli intervistati è a conoscenza del fatto che gli aspetti ESG (Environmental, Social e Governance) saranno previsti nelle analisi del merito di credito.