Il fintech, le banche italiane e il ritardo digitale
Molte banche tradizionali si stanno dotando di soluzioni digitali simili a quelle lanciate dalle startup fintech. E mentre il fintech corre veloce gli istituti di credito fanno salti mortali per raggiungerlo. Ma in realtà a investire in innovazione, in Italia, sono in pochi: “In valore assoluto gli investimenti delle banche in innovazione stanno crescendo, ma sono polarizzati – commenta Laura Grassi, direttrice dell’Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano -. Il mercato italiano va a due velocità: pochissime banche si stanno rinnovando, la maggior parte resta com’è. Con il Covid tante si sono trovate costrette a tamponare l’estremo ritardo e a offrire ai clienti servizi digitali, ma con la fine della crisi pandemica hanno già smesso di investire”.
Secondo l’indagine di Banca d’Italia sul fintech, infatti, la spesa per investimenti in tecnologie innovative resta distribuita su un numero limitato di intermediari, il 71,8% degli investimenti è stato fatto dai primi cinque investitori. La spesa complessiva è stata di 456 milioni di euro nel biennio 2019-2020 e 530milioni nel 2021-2022.
Il rapporto banche-startup fintech
Anni fa, con l’esplosione del fintech nei paesi anglosassoni e negli Stati Uniti si pensava che il rapporto tra finanza tradizionale e fintech fosse di concorrenza. In realtà, i tempi hanno dimostrato che non è del tutto vero. Le banche sviluppano l’innovazione con modelli differenti.
Ci sono quelle che creano tutto all’interno, con il loro comparto IT: “Un modello che oggi inizia a essere critico in termini di time to market delle soluzioni – commenta Grassi -. Inoltre comporta per la banca uno sforzo enorme che spesso non riesce a essere costante nel tempo e al passo con la veloce evoluzione delle tecnologie”.
Collaborazioni e partnership
Il secondo approccio si può definire collaborativo: la banca collabora con società esterne, a volte startup ma spesso anche fornitori di vecchia data, per sviluppare le sue soluzioni digitali. “In questo caso – spiega Grassi – viene spesso utilizzata impropriamente la parola partnership. Si tratta di azioni in atto dalle banche più lungimiranti: non una richiesta di un prodotto in cambio di soldi, ma due attori che si mettono in gioco, che studiano insieme la soluzione. Quando si fa qualcosa di nuovo nascono vere partnership in molti casi con startup fintech: la startup dà il suo servizio in white label, con il brand della banca. È questo che va nella direzione di quello che serve al cliente”.
Acquisizioni e aumenti di capitale
Infine molte banche acquisiscono quote o l’intero capitale di startup fintech. Può sembrare l’opzione più allentante ma in realtà può portare svantaggi soprattutto alla startup, che viene “soffocata” dalla presenza in cda di una banca e che spesso si trova impossibilitata a collaborare con altri attori. In questo modo diventa una “funzione” della banca e stenta a evolvere.
“In linea generale le banche più tradizionali preferiscono andare verso l’acquisizione, anche per scongiurare la concorrenza delle fintech – conclude l’esperta -. Quelle note per essere un po’ più innovative, invece, scelgono partnership e collaborazioni, anche lanciando programmi di incubazione o venture capital”.